Testi critici

Qhapaq Ñan,
Sistema Viario
Andino

Qhapaq Ñan,
Sistema Viario Andino

Un progetto pionieristico per la teoria e la pratica della cooperazione multilaterale in materia di Patrimonio Culturale

Di Nuria Sanz
Coordinatrice del Progetto di candidatura del Qhapaq Ñan, Centro del Patrimonio Mondiale, UNESCO, Parigi.

In sintesi

Il Qhapaq Ñan, Sistema Viario Andino, è una delle infrastrutture di comunicazione più complesse e meglio conservate del mondo; rappresenta una delle conquiste più straordinarie -in termini di viabilità e collegamenti- nella storia dell’umanità, in un ambiente geografico estremo ed eterogeneo e in un contesto di culture che hanno saputo creare e mantenere, per secoli, un tracciato sicuro ed efficiente. Il cammino delle Ande meraviglia il mondo occidentale fin dal XVI secolo, non solo per la sua maestosità, ma anche per la sua percorribilità ed efficienza, ineguagliate da qualsiasi altro sistema fino ad allora noto agli antichi imperi.

L’aspetto più rilevante di questa rete viaria è rappresentato dalle tecniche di costruzione utilizzate per potersi spostare lungo una delle catene montuose più complesse del pianeta: le Ande. La rete rappresenta la sintesi dello sviluppo culturale in Sud America nel corso di più di tre millenni di storia. Il Qhapaq Ñan è stato, fin dal Rinascimento, oggetto dell’ammirazione di molti cronisti, esploratori e viaggiatori che hanno percorso questa grande opera di ingegneria e tecnologia stradale dell’America Andina.

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Il Qhapaq Ñan è la testimonianza di tecnologie adattive molto sofisticate, che hanno saputo intessere una strategia geopolitica di integrazione, in un territorio eterogeneo e di ampia scala (cinque milioni di chilometri quadrati), rendendo possibile una continuità ecologica ed economica, nonché un’interazione socio-culturale, che durano ancora oggi. Ha elaborato le conoscenze delle società e delle epoche precedenti integrandole in un corpus innovativo, sviluppato e concretizzato a partire da Cusco, capitale del Tawantinsuyu, ombelico del mondo e centro verso cui converge e da cui si dirama questa rete stradale. Il Qhapaq Ñan non è un patrimonio del XV secolo, tuttavia il suo sviluppo a livello continentale è il prodotto di un progetto politico degli Incas di Cusco.

La rete stradale è costituita da una prodigiosa architettura destinata ai collegamenti e ai rifornimenti. Sono state documentate centinaia di tipologie di pavimentazioni, muri, gradini, fossati, canali, scarichi, ecc., adattati in base alle diverse regioni, ai diversi climi e alle diverse altitudini. I siti archeologici collegati riflettono inoltre la complementarità di questa magnifica infrastruttura: centri amministrativi e politici, centri di ridistribuzione, città, siti difensivi e cerimoniali, fortezze militari, luoghi di rifornimento e siti di arte rupestre, tutti connessi alla rete stradale.

Attualmente le comunità andine, eredi di tradizioni millenarie, utilizzano ancora le strade del Qhapaq Ñan, rispettando e conservando modelli d’uso, valori e principi che sono tipicamente andini. Il Qhapaq Ñan è l’espressione di un paradigma di rispetto e reciprocità nei confronti della natura che ha contribuito alla creazione di un paesaggio antropizzato unico al mondo. Un’eredità ancora oggi rilevante per le civiltà contemporanee, sia dal punto di vista simbolico che funzionale. Appoggiandosi sulla tradizione orale e sulla partecipazione comunitaria, questo progetto contribuisce a garantire la continuità di tale lascito, stabilendo un legame tra il patrimonio ancestrale, materiale e immateriale, e le sue manifestazioni contemporanee.

Il Centro per il Patrimonio Mondiale dell’UNESCO ha coordinato il progetto di candidatura del Qhapaq Ñan alla Lista del Patrimonio Mondiale e ha seguito i sei Paesi: Argentina, Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador e Perù in un programma senza precedenti nella storia della Convenzione sul Patrimonio dell’Umanità del 1972: la preparazione della candidatura seriale transnazionale dell’itinerario culturale Sistema Viario Andino. Dal 2014 il sistema stradale fa parte delle liste dell’UNESCO, che continua a seguire gli sforzi degli stati coinvolti.

Questo progetto ha richiesto la partecipazione tecnica di centinaia di esperti che hanno collaborato alla catalogazione dei componenti archeologici, ambientali ed etnografici di un tale straordinario acervo culturale, per poter giungere a un’interpretazione comune della storia condivisa. La firma degli accordi tecnici e politici tra i Paesi ha dato origine a forme di cooperazione a vantaggio di tutti gli stati firmatari della Convenzione sul Patrimonio dell’Umanità, in termini di conservazione, di tutela giuridica transnazionale e di gestione internazionale dei beni. Il complesso lavoro di diplomazia culturale è pari all’immensità e all’eccezionale valore universale di tali beni.

La procedura di nomina nella Lista dei Patrimoni dell’Umanità è stato solo l’inizio di un’avventura condivisa: i Paesi coinvolti in questo iter stanno ora intraprendendo un’impresa di ampio respiro e, nel farlo, stanno creando un riferimento per tutte le nazioni del mondo.

Il bene Qhapaq Ñan come fenomeno culturale

Il Qhapaq Ñan, il Grande Cammino delle Ande, è stato l’asse centrale del progetto politico-economico dell’Impero Inca. Questo Grande Cammino, della lunghezza stimata di 6.000 chilometri, fungeva da collegamento per un’articolata rete di percorsi e infrastrutture costruiti nel corso di più di 2.000 anni di culture andine preincaiche. Tutta questa rete viaria, lunga oltre 23.000 chilometri, metteva in comunicazione vari centri produttivi, amministrativi e cerimoniali.

Il Cammino, il Grande Cammino, da alcuni chiamato anche Cammino Reale, è quello che percorre le alte vette delle montagne andine, il cui tratto maggiormente identificabile unisce Quito a Mendoza. A questa direttrice principale che si inerpica sulle cime più alte se ne aggiunge una seconda, con percorsi che estendono il proprio tracciato da Nord a Sud lungo la costa del Pacifico. Tra queste due, come corridoi trasversali, si diramano altrettanti sentieri che collegano alla costa, all’Amazzonia e alla Puna. La rete viaria inca collegava i centri del potere alle valli delle yunga, ai deserti e alle selve nei più remoti recessi dell’Impero, intessendo tutti i tipi di relazione entro il territorio.

La Cordigliera non consentiva tracciati a raggiera, perciò l’itinerario seguiva necessariamente un andamento longitudinale, secondo una gerarchia elementare basata su snodi e diramazioni che si riducono in dimensioni e consistenza via via che si allontanano dagli assi principali. La sua costruzione rispondeva a interessi commerciali, politici, amministrativi, strategici e militari: cavalcando sulle cime e lungo i fianchi della Cordigliera andina, era possibile recapitare le missive dell’Impero anche nei luoghi più remoti.

Questa rete di cammini ha consentito l’espansione e l’organizzazione dell’Impero Inca. In precedenza, le culture Wari e Chimú avevano già saputo associare gruppi etnici, santuari e huaca in ambiti di tipo regionale. L’Impero Inca aveva sviluppato la propria rete a livello continentale e i cammini rappresentano alla perfezione lo spirito organizzativo e di pianificazione della forza lavoro disponibile: sono stati lo strumento fondamentale per unire l’Impero, tanto fisicamente quanto dal punto di vista corporativo.

Si tratta di un grande complesso di valore universale, di un grande sito transnazionale. Le riunioni del Comitato scientifico per la procedura di nomina sono servite per precisare il significato culturale e il valore di unità del complesso, in modo da valutare le modalità di iscrizione nella Lista dei Patrimoni Mondiali dell’UNESCO, mediante diverse formule di cooperazione tecnica e politica.

Il Grande Cammino delle Ande è per definizione la manifestazione di un eroismo silenzioso, di tecnologie elementari e sapienti, che attraversano verticalmente differenze ecologiche ed economiche, collegando culture indissolubilmente legate a una delle geografie più estreme del pianeta.

Nel caso dei cammini, l’abilità costruttiva va al di là delle necessità funzionali di una rete di comunicazione. L’enorme varietà tipologica di scale, di tecniche, di finiture e disposizioni, di delimitazioni, di gestione idraulica, di materiali, ci parla, ancora una volta, di abilità costruttive tecnicamente impeccabili. La minuzia con cui vengono mitigati i dislivelli, il tutto effettuato con le sole forze umane, senza poter contare su animali da tiro o sulla ruota e utilizzando soltanto semplici strumenti in pietra e legno o metallo, sintetizza con efficacia una grande avventura imperiale, che ha raggiunto il successo nell’arco di poche generazioni. La competenza con cui le strade sono state progettate e la precisione con cui sono state costruite venivano integrate da precisi programmi di manutenzione e rifacimento permanenti.

Gli Incas di Cusco, in meno di un secolo, hanno conferito un carattere unitario a un’infrastruttura così particolare, dotandola di coerenza funzionale e implementando nuclei complementari dedicati al commercio, allo scambio, alla produzione e al culto, adattando i settori produttivi in base alla topografia e al clima, in ciascuno dei diversi ecosistemi che si incontrano lungo il Cammino.

Ma il Qhapaq Ñan è stato anche un mezzo di comunicazione che ha permesso la diffusione e la maturazione delle culture regionali e l’appropriazione di valori culturali comuni, grazie all’espansione di lingue come il quechua e l’aymara e, con esse, delle rispettive culture e cosmovisioni. Il Cammino esprime inoltre il rapporto armonioso di queste popolazioni con la complessa natura delle Ande e il loro adattamento alla stessa. Oggi, gli ambienti culturali del Qhapaq Ñan delineano un contesto eccezionale in cui le culture andine viventi continuano a essere portatrici di un messaggio universale: la capacità umana di trasformare una delle geografie più difficili del continente americano in un ambiente in cui vivere.

Già al primo sguardo, il mondo andino appare come un territorio sapientemente addomesticato mediante forme di organizzazione sociale ed economica che si tramandano da molte generazioni. La prima visione del mondo andino nel nostro immaginario ci rimanda a paesaggi privi di presenza umana, come se si trattasse di un mondo in cui è raro spostarsi e dove la diversità si traduce evidentemente nella grande normalità. A fronte delle magnifiche costruzioni incaiche, il sistema insediativo ci parla oggi di una presenza prudente, di una volontà di resistenza e di pratiche culturali e produttive di lotta quotidiana nei confronti di una natura sacralizzata e ostile.

Il sistema insediativo testimonia l’eroica avventura delle generazioni che si sono succedute. Questa impresa è un processo senza fine che inizia a cercare nuovi modi per inventare il futuro, con l’energia dell’impresa fondante e la temperanza di chi è consapevole delle difficoltà. La geografia andina è una geografia frammentata. L’ingegnosità con cui l’ambiente naturale è stato antropizzato, dai sistemi di coltivazione a quelli cultuali, mostra come decine di generazioni abbiano via via modellato la fisionomia delle Ande attraverso molti secoli di tecnologie e di cambiamenti sociali e politici. Il suo territorio mantiene ancora oggi legami profondi, radicati in tradizioni che contano almeno mezzo millennio e che richiedono nuove forme di cooperazione culturale in termini di sviluppo.

La procedura di candidatura prevedeva le seguenti fasi:

1. Definire concettualmente il Qhapaq Ñan come un patrimonio di valore universale, sulla base dei dati archeologici, storici, paesaggistici, antropologici, etnografici e di altri dati significativi in funzione della definizione della sua unicità.

2. Presentare, discutere e concordare, nell’ambito dei criteri stabiliti dalla Convenzione sul Patrimonio Mondiale, le possibili modalità di iscrizione del Qhapaq Ñan alla Lista del Patrimonio Mondiale e individuare i meccanismi operativi che avrebbero permesso di far avanzare la pratica.

3. Definire i criteri e le metodologie che identificassero un minimo comune denominatore rispetto ai criteri di gestione di siti, reperti, aree, comunità, paesaggi e cosmovisioni legati al Qhapaq Ñan in quanto patrimonio di valore universale.

Era pertanto necessario:

1. Raccogliere e sistematizzare tutte le ricerche e gli studi effettuati sull’argomento da ciascuno dei Paesi interessati e, nel contempo, favorire lo scambio scientifico tra specialisti di settori distinti.

2. Identificare i rischi e le difficoltà nella procedura di candidatura come pratiche di diplomazia culturale multilaterale.

3. Istituire un gruppo di lavoro responsabile per il coordinamento internazionale del progetto e selezionare i coordinatori nazionali per ogni settore.

4. Definire le forme di collaborazione interistituzionale con altri organismi internazionali esperti in materia.

5. Delineare un progetto preliminare per un sito web con spazio internet/intranet che facilitasse la gestione delle informazioni allo scopo di elaborare il dossier di candidatura che prevedeva il contributo di più di 400 specialisti.

Definizione del bene-patrimonio Qhapaq Ñan

Tra le informazioni raccolte, gli specialisti hanno sostanzialmente identificato il Qhapaq Ñan con il territorio del Tawantinsuyu e i quattro quadranti dell’Impero Inca; il Cammino definisce il territorio incaico. Il Tawantinsuyu o Impero Incaico, si divideva in quattro quadranti. Il settore di nordest o Chinchasuyu includeva la maggior parte del Perù centrale e settentrionale, l’Ecuador e il Sud della Colombia. Il quarto o provincia di sudovest era il Kuntisuyu, che copriva la costa del Perù centrale. Alle pendici della selva orientale, si estendeva l’Antisuyu fino a nordest e sudest. La provincia più grande, il Kollasuyu, a sud, includeva il bacino del lago Titicaca, la maggior parte della Bolivia, gli altipiani dell’Argentina fino alla provincia di Mendoza, e la metà settentrionale del Cile. I Cammini andini intessevano una trama che rendeva possibile l’esistenza di un Impero.

Durante l’Impero del Tawantinsuyu, il Qhapaq Ñan attraversava il territorio, unendo i vari popoli, regioni ed ecosistemi delle Ande e rappresentando la via di comunicazione o “corridoio”, riflesso della complessa, efficace e integrata organizzazione dello Stato. Il sistema viario incaico, con i suoi cammini costieri, di alta montagna e un’estesa rete di cammini secondari e trasversali, univa tutte le terre rendendone possibile l’amministrazione e la comunicazione tra ogni popolo dell’Impero. I diversi itinerari ci danno un’idea dell’articolata combinazione degli spazi e delle risorse complementari nonché dei diversi insediamenti associati e delle attività e infrastrutture sviluppate: ponti, villaggi, fortificazioni, edifici per rifornimenti, depositi, piramidi ushnu, luoghi dedicati all’estrazione mineraria o allo sviluppo agricolo intensivo, ecc.

Il Qhapaq Ñan viene definito come il corridoio dell’Impero, il Grande Cammino Principale della Sierra, servito da percorsi secondari o trasversali. Fin dall’inizio è stato presentato come una risorsa lineare, che integra nel suo percorso paesaggi e valori storici, sociali, scientifici, economici e relativi alle cosmovisioni ad essi associati. È stato definito come un corridoio che collega spazi culturali di complementarietà economica, in relazione alle varie regioni climatiche. Si è tenuto conto della necessità di reperire tutte le prove possibili, senza fermarsi a ciò che è visibile o recuperabile mediante la metodologia archeologica. I Paesi partecipanti sono concordi nell’affermare che il Grande Cammino Andino è un riferimento unico per una lettura plurale della storia dell’America andina, che riveste un significato storico-antropologico e fornisce un’eccezionale opportunità di integrazione di valori culturali condivisi.

La notevole ampiezza di questa rete di interrelazioni e il suo percorso attraverso valli profonde, alte catene montuose, montagne innevate, paludi, zone rocciose e fiumi torrentizi costituisce una risorsa culturale che permette di incorporare la valorizzazione della biodiversità lungo tutto il suo percorso. Il concetto di risorsa lineare -il cammino-, integrato con quelli di paesaggio -il cammino e gli ambienti che lo circondano- costituiscono elementi teorico-metodologici che sono serviti a identificare, proteggere e gestire questo patrimonio correlato. Sono stati individuati dei nuclei, che sono stati definiti come quelle aree che integravano o contenevano unità naturali e culturali portatrici dei valori essenziali del bene in questione e che possedevano un alto valore per il rinnovamento delle relazioni e dei processi che sostengono la biodiversità e la diversità culturale degli ecosistemi. I nuclei e i corridoi andavano allora a costituire una matrice, di grande estensione geografica, che rappresenta lo spazio globale dell’Impero, epicentro anche dell’immensa varietà naturale, linguistica e genetica fino al giorno d’oggi.

I cammini interconnettono molteplici valori storici grazie sia all’ampiezza che alla qualità della rete, rappresentativa del più complesso ed esteso sistema culturale sudamericano pre-ispanico, legato anche alla storia della conquista spagnola, allo sviluppo di quest’ultima nella sua organizzazione dello spazio andino americano e alla vita delle società odierne. Una volta completata la procedura di candidatura, la visione condivisa dai Paesi partecipanti non era una visione storiografica del bene; oggi il Qhapaq Ñan è considerato come un catalizzatore dello sviluppo sociale ed economico delle società coinvolte, oggi e in futuro. Il Cammino costituisce un elemento critico della realtà degli stati sudamericani della Cordigliera, che, mediante la risorsa rappresentata da questo patrimonio, possono riconoscere e riconoscersi nell’identità di un passato comune sul quale è possibile pianificare e costruire i rapporti attuali in direzione di una crescita associativa, proiettata verso il futuro. Grazie alle comunità locali e/o indigene, il Cammino è oggi un’arteria vitale e continua a funzionare come strumento di scambi culturali ed economici. Le comunità collegate al Cammino sono di carattere urbano, rurale (costa, montagna, foresta) e talvolta sono risultato dell’evoluzione da rurale a urbano, in processi che innescano sradicamenti e/o nuovi modi di stabilire identità di gruppo.

La maggior parte delle comunità del Qhapaq Ñan vive in povertà, subendo le conseguenze del proprio isolamento economico e sociale. In generale, non sono consapevoli delle potenzialità della ricchezza culturale che li circonda nell’ottica di un miglioramento della loro qualità di vita, in un momento in cui la pratica della conservazione del patrimonio immateriale si trova ancora agli inizi, così come le pratiche museografiche comunitarie correlate. Più di 30.000 comunità andine continuano a percorrere il Cammino, e il Cammino continua a sostenere i loro rapporti. Il binomio non si è ancora convertito in realtà: la generazione dello sviluppo e del recupero del patrimonio a beneficio delle comunità del Qhapaq Ñan. Il progetto ha ripartito tra 6 Paesi le sfide dei programmi di sviluppo indigeno di casi come quello di Maras in Perù, o il caso della cooperativa alberghiera a Tomarapi, nel Parque Nacional Sajama (Bolivia) o nel caso delle comunità del Loa in Cile.

Come suddividere l’universo Qhapaq Ñan in unità di intervento per la protezione e conservazione

Come sistematizzare la diversità

I Paesi coinvolti hanno proposto varie categorie di analisi per i diversi tratti del Cammino, la loro progettazione, i materiali e le risorse culturali e naturali associate.

Abbiamo cercato di raggruppare i criteri.

Quanto ai cammini e alla loro localizzazione geografica:

– Cammino Principale della Sierra

– Cammini trasversali verso la costa

– Cammino costiero

– Cammini che si inoltrano in Amazzonia

In base al loro progetto costruttivo:

– Cammini principali (pavimentazione e parapetti)

– Cammini secondari (ciottoli, sabbia)

– Sentieri dei chasqui

In base alle caratteristiche strutturali/al tracciato:

– Libero

– Libero e delimitato

– Chiuso da pareti

– Lastricato

– Selciato

– Gradinato

– Rampe

– Terrazzamenti

– Collegati: Tunnel e Ponti

– Modifiche coloniali, modifiche repubblicane, ecc.

Quanto alle tipologie di insediamenti collegati (architettura domestica, edifici amministrativi, siti cerimoniali, aree minerarie):

– Tambo

– Pukara

– Piattaforme cerimoniali (Ushnu)

– Terrazze di coltivazioni associate

– Centri Amministrativi/Kallanca

– Santuari ad alta quota

– Stabilimenti minerari

– Architettura militare difensiva

– Mulini

– Cappelle coloniali

– Apacheta

In base alle unità del Patrimonio Naturale associato, i cammini sono associati a centinaia di:

– Parchi Nazionali

– Riserve Nazionali

– Monumenti Nazionali

– Aree faunistiche protette

– Siti naturali sacri

Tessere i nodi di un’eredità differente: Qhapaq Ñan come Itinerario Culturale

Il Qhapaq Ñan, in quanto percorso culturale, si caratterizza per una dinamica e una funzionalità specifiche lungo la storia, come scenario di movimenti di persone, culture, beni, idee, conoscenze, credenze e valori nel corso di significativi periodi di tempo che sono stati teatro di fertili innesti di culture, con riflessi sul patrimonio sia culturale che naturale fino ad oggi. La natura dei reperti e delle risorse del Cammino è molto varia, così come sono multidisciplinari le squadre che lavorano in ciascuno dei Paesi. L’obiettivo è quello di portare avanti il progetto con un approccio plurale nei confronti della storia e delle culture sviluppate nel segno del Cammino. Quando si perde la traccia archeologica del Cammino, questa viene rinvenuta mediante i toponimi, le lingue viventi parlate, le tradizioni, i mercati, i tessuti, i prodotti agricoli, e tutte le ulteriori categorie che compongono il patrimonio immateriale e documentario.

Una trentina di università nei diversi Paesi coinvolti, oltre a circa venti ONG, hanno lavorato attivamente alla definizione e alla valorizzazione del Cammino. Istituti di statistica e Agenzie di Cooperazione Internazionale stanno lavorando a iniziative che contribuiranno allo sviluppo di progetti di conservazione e valorizzazione del Cammino e dei suoi paesaggi. Lo sforzo di sintetizzare una visione collettiva del Qhapaq Ñan come fenomeno culturale ha offerto un’occasione privilegiata per rileggere una storia comune. Nei libri di testo scolastici degli stati coinvolti non esisteva una lettura condivisa. Il progetto si è trasformato in una arena accademica di discussione, i cui risultati hanno fornito contenuti per una lettura comune della storia a vantaggio del pubblico di età scolare.

Combinare visioni accademiche

Abbiamo avviato il progetto di concettualizzazione del valore universale del bene Qhapaq Ñan grazie al supporto costante del comitato scientifico. Guillermo Lumbreras, Vicki Castro, Myriam Tarragó, Maria Rostorowski, Tom Zuidema, Gary Urton, Craig Morris, Lautaro Núñez, Catherine Julien e Jorge Flores Ochoa, insieme ad altre riconosciute autorità, hanno discusso ed elaborato una visione condivisa del significato storico e contemporaneo del Sistema Viario Andino.

Secondo l’approccio del professor Lumbreras:

Quando gli spagnoli arrivarono in Perù nel 1532, si addentrarono in un territorio politico unificato che si estendeva per più di 6.000 km quadrati di superficie, noto nel mondo andino come Tawantinsuyu e che collegava tutti i diversi progetti stradali sviluppati, a carattere locale o regionale, dagli abitanti di quel territorio a partire dal IX secolo circa. Il sistema stradale andino permetteva di espandere gli obiettivi dell’Impero a livello continentale, oltre che in modo rapido e sicuro lungo tutto il margine occidentale del Sudamerica. La rete stradale, Qhapaq Ñan, fu concepita per garantire un’efficiente gestione statale in questo immenso territorio, amministrando il lavoro e la produzione. La rete dei sentieri agiva come elemento aggregante di un progetto politico di portata sovranazionale, che servì per costruire una base strutturale di notevole capacità organizzativa. Secondo il professor Lumbreras, il grande progetto stradale fu concepito e realizzato come un’unità e ancora oggi rappresenta il più grande monumento del continente americano. Ha sempre sostenuto che si trattava di una soluzione pedonale, in cui il trasporto delle merci avveniva mediante le carovane di lama. Il declino dello Stato Inca a partire dal secolo XVI non ha comportato il disuso dei cammini. I sistemi di comunicazione dal periodo coloniale al XX secolo hanno interessato una parte dell’insieme, in particolare i rami più prossimi alla costa, ma le vie di comunicazione non hanno perso la loro funzione originaria. Al contrario, in ciascuna delle tappe storiche non si trovarono sistemi o tracciati migliori e si continuò ad utilizzare quella rete; di fatto, gran parte della via Panamericana segue i percorsi dei sentieri abitualmente utilizzati dagli Incas. Le civiltà di Tiwanaco, Wari, o la cultura Chanca avevano costituito società di carattere urbano che crearono forme regionali o locali di dominio, su base agraria, integrate da un’economia marina molto ampia e da una solida componente legata all’allevamento del bestiame, dal VII al XII secolo. L’estensione di questi domini richiedeva un sistema stradale circoscritto all’ambito della gestione dei centri cerimoniali, che per lo più servivano una o due valli limitrofe, e non si estendevano oltre l’area circostante. Tuttavia, con il nono Inca ebbe inizio la grande espansione imperiale. Pachakuti deve aver iniziato a regnare nei primi decenni del XV secolo (intorno al 1430), dato che dopo di lui vennero Tupaq Yupanki e Wayna Qhapaq, i tre governanti che coprono i 100 anni precedenti all’arrivo degli spagnoli. Fino al regno di Pachakuteq, Cusco era una sorta di signoria regionale, il cui potere non si estendeva oltre le valli di Urubamba e Vilcanota, vale a dire l’attuale provincia di Cusco.

Il sistema stradale favoriva:

– L’unità delle credenze: ciascuna etnia conserva i propri mallqui, o antenati mummificati.

– L’unità di lingua o dialetto, una lingua ufficiale “lingua dell’inga”.

– L’unità degli abbigliamenti e dei relativi codici.

– L’unità socio-politica basata sul controllo delle macro-etnie. Gli Incas si interfacciarono con le massime autorità delle macro-etnie annesse, allo scopo di ottenere forza lavoro e terre senza abolirne gli usi e i costumi. Ciascuna macro-etnia era inoltre composta da diversi curacazcos o unità politiche. Il tutto entro un territorio colossale, che veniva governato spostandosi a piedi.

Si trattava di uno Stato capace di garantire la pace, in cambio di sottomissione e assoggettamento ai tributi. Vennero istituite pratiche come quelle dei mitmaq (mitima), o come il sistema di contabilità e documentazione rappresentato da quello che conosciamo con il nome di Khipus, un sistema che esisteva già nel periodo Wari ed è rimasto in vigore ai tempi del Tawantinsuyu.

I mitmaqcuna, aqllacuna, yanacuna e mit’ayuqcuna erano gli addetti a svolgere i compiti specifici della produzione statale. Il loro lavoro copriva tutto lo spazio produttivo che andava al di là delle pure esigenze del kawsay (“il necessario per vivere”), ovvero la produzione e le economie di sussistenza familiare. Da Cusco si raggiungevano altri nuclei urbani, che funzionavano come centri amministrativi provinciali.

Ebbe così origine il Tawantinsuyu, che in breve incorporò sotto la propria egida “le quattro parti del mondo”, pacificando quelle terre e dando il via a un nuovo progetto di coesistenza tra le popolazioni che -se il calcolo è corretto- in appena un secolo (dal 1430 al 1532) riuscì a ottenere l’unità delle diverse nazionalità incorporate entro l’Impero, la moltiplicazione delle risorse e l’integrazione delle conquiste economiche e sociali di un territorio che si estendeva per 5.000 km. Si trattava di un sistema di comunicazione molto complesso e sofisticato, realizzato come parte del progetto politico di tre soli governanti. Si tratta di un secolo singolare nella storia andina.

L’esame degli immensi terrazzamenti che furono costruiti a scopo agricolo in quegli anni lungo centinaia di chilometri di pendii deserti della cordigliera occidentale (andenes) sono indicativi di una politica agricola di tipo intensivo basata sull’ampiamento delle terre coltivabili mediante la creazione di infrastrutture che non intaccavano spazi già precedentemente utilizzati. Grazie alla Mit’a, la divisione del lavoro regolamentata e standardizzata, i cammini venivano costruiti, riparati e adeguati.

L’organizzazione sociale originaria da cui derivava lo Stato Inca era quella delle tribù che, nella sua forma più complessa e avanzata assumeva l’aspetto dei cosiddetti ayllu; la base sociale inca di tipo tribale andava ad affluire in una struttura urbana che poggiava sulla formazione di una casta dagli usi e costumi urbani e che, tuttavia, non abbandonava i propri vincoli rurali mediante la propria comunità di casta, detta panaca.

Sulle Ande, il rapporto tra l’aspetto rurale e quello urbano incide sulla capacità di sopravvivenza. Per poter raggiungere questo livello di efficienza, la politica incaica non prevedeva una distribuzione delle terre che non tenesse conto della loro produttività, al contrario: il processo distributivo dei terreni avveniva sulla base di un’attenta valutazione del loro potenziale produttivo. Tale valutazione determinava, quasi sempre, l’ampliamento dell’area produttiva al fine di ottenere un efficiente programma di coltura intensiva, con produzione di riserve. Indubbiamente, l’intensificazione agricola influiva sui rapporti: i membri della comunità fornivano il proprio lavoro in cambio dei beni e dei servizi a cui provvedeva lo Stato.

La ridistribuzione promuoveva una percezione di giustizia sociale e legittimava lo Stato nei suoi ruoli amministrativi e coercitivi nei confronti dei comuneros, ovvero la popolazione produttiva.

Pertanto, entro l’Impero circolavano molti dèi, molte lingue e una moltitudine di costumi, ma tutti inglobati sotto un unico regime e un’unica gerarchia. Un filo conduttore univa tutte queste diversità: il Qhapaq Ñan, e grazie ad esso o ai servizi che offriva, circolavano le lingue locali insieme a una “lingua generale” e gli dèi locali insieme a Inti, il dio sole con la luna e tutta la sua coorte di stelle. Gli Incas hanno coordinato l’integrazione tra le diversità, portando avanti un progetto di armonizzazione di molte macro-etnie.

La rete stradale che gli Incas hanno recuperato e ampliato nel loro progetto di integrazione andina nel XV secolo (servendosi di tutte le conquiste precedenti e aggiungendo quanto necessario per la realizzazione del loro progetto politico imperiale), ha avuto il merito di consolidare l’unione dei popoli della Cordigliera andina lungo un asse nord-sud e, nel contempo, di permettere l’inserimento, entro questo asse centrale, dei popoli dei versanti orientali e occidentali dei Paesi andini. Nel corso dei secoli, la storia ha smembrato alcune sezioni. Il progetto di candidatura può perciò essere inteso come un progetto di recupero di tali sezioni e dei loro percorsi. Questo progetto ha incrementato in modo significativo le informazioni archeologiche sulla rete stradale, tanto che i 20.700 km del cammino identificati da Leon Strube, e successivamente cresciuti a 23.189 grazie agli studi di Hyslop, sono aumentati di anno in anno nel corso del processo di candidatura e nomina del bene nelle liste del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO.

Il contributo di Tom Zuidema ci ha aiutato a concettualizzare gli usi rituali del cammino rispetto ai vari riti del calendario. Percorrere il cammino poteva significare partecipare a un rito iniziatico, a una processione o a un pellegrinaggio, a un’offerta o a un sacrificio. Il tragitto poteva essere effettuato lungo un cammino già esistente oppure lungo un sentiero non ancora tracciato. Zuidema era convinto che l’uso rituale dei cammini sulle Ande avesse un’origine molto antica. Senza dubbio, le informazioni più complete provengono dalla regione di Cusco, l’antica capitale inca, ma alcuni percorsi rituali si estendevano lungo il tratto che va da Cusco al Lago Titicaca.

Ci deliziava con le spiegazioni in merito alle 41 direzioni, ceques, che si diramavano a partire dal tempio del Sole. Grazie alle sue scrupolose statistiche abbiamo potuto apprezzare il livello di complessità simbolica del paesaggio e la bassa probabilità di trovare prove archeologiche che possano contrastare quanto riportato dalle fonti.

Ian Farrington ci ha fatto familiarizzare con la domesticazione incaica del paesaggio andino. Le strade del Cammino uniscono produzione economica e interazione sociale, fondendo indissolubilmente il sacro e il profano. La venerazione dei paesaggi naturali, delle montagne, dei fiumi, delle cascate, la visibilità diurna e quella notturna e l’installazione di edifici funzionali in siti rituali facevano parte del programma politico. Ci ha illustrato nel dettaglio la ritualizzazione e la sacralizzazione degli spazi pubblici di Cusco e la capacità territoriale dell’Impero di riprodurre altre Cusco, come è accaduto nel caso di Vilkaswaman, El Shincal, Samaipata, la Valle de Maipo o nel caso di Tumibamba, in diversi ambienti andini.

María Rostorowski ha sottolineato l’importanza della diffusione e dell’uso di una lingua franca, la lingua dell’Inga, come strumento per ottenere l’integrazione. Ha dimostrato e quantificato i tratti percorsi dai chasqui nei loro spostamenti lungo il cammino principale e quelli corrispondenti ai tratti tra Cusco e la costa realizzati dai ñanguincha, o messaggeri costieri.

Da parte sua, Myriam N. Tarragó ha evidenziato l’importanza del Grande Cammino Andino nello stimolare e favorire il collegamento tra popoli e luoghi remoti, fino ad allora periferici rispetto al nucleo di sviluppo della civiltà andina, facendoci riflettere sulle modalità di tale integrazione entro il grande stato, sia mediante la circolazione delle produzioni materiali e delle risorse, sia per mezzo dei beni simbolici e immateriali.

Catherine Julien ha spiegato come il grande cammino andino abbia facilitato gli spostamenti di eserciti e ambasciate dalla metropoli cusqueña e strutturato la divisione territoriale dell’Impero Incaico. Secondo i suoi studi archeologici ed etno-storici, i percorsi lungo il Cammino orientavano il corpo entro lo spazio. Juan de Betanzos, nella sua Historia de los Incas, del 1551, sosteneva che, quando si parte da Tiwanaco volgendo le spalle al punto in cui sorge il sole e si guarda Cusco, lo spazio si divide in due metà: una a destra e una a sinistra. L’asse di divisione tra le due è il Cammino Incaico. Catherine aggiunge: guardando verso il sole che tramonta, al solstizio di giugno, si vede un punto che gli Incas segnavano all’orizzonte da Cusco. Questo punto è citato in un elenco di siti sacri nei dintorni di Cusco, ma gli archeologi non sono ancora riusciti a trovare i resti dei pilastri che delimitavano il tramonto del sole. Sono però stati trovati i pilastri che lo delimitavano, al momento del solstizio di giugno, guardando dall’Isola del Sole nel Lago Titicaca. Il grande cammino inca è l’espressione più durevole che possediamo della concezione spazio-temporale andina, era solita affermare con determinazione.

Lautaro Núñez ha sottolineato la difficoltà di costruire e percorrere a piedi il Cammino lungo il deserto più estremo delle Americhe, quello di Atacama nel Cile, mentre Jorge A. Flores Ochoa si è dedicato a spiegarci l’articolazione tra le vite dei produttori andini, quelle dei pastori di lama e alpaca e quelle degli agricoltori che risiedono nelle valli più in basso. I pastori trasportano ogni anno la loro produzione – lana, carne, sacchi, corde, ecc.- per scambiarli con mais, patate e altri prodotti agricoli. Poiché questo scambio non è cessato, queste strade sono ancora in uso e probabilmente per questo motivo sono quelle meglio conservate. È importante anche tenere conto del loro rapporto con le celebrazioni patronali e i siti sacri di origine precolombiana. È fondamentale dimostrare che occuparsi delle strade inca significa occuparsi di strade in uso, ribadiva.

Avevamo a che fare con un fenomeno culturale di portata universale per quanto concerne:

– La progettazione e lo sviluppo della rete, significativamente più grande rispetto ad altri sistemi di comunicazione dell’antichità.

– L’ingegneria e la sacralizzazione del paesaggio.

– Il modo in cui i cammini organizzavano la vita religiosa, politica e culturale dell’Impero.

– La sistematizzazione funzionale che organizzava la mobilità della popolazione e delle risorse entro una struttura comune.

– La raffinatezza della progettazione di una rete stradale monumentale in uno degli ambienti geografici più remoti ed estremi del pianeta.

– La funzionalità della rete come strategia di ridistribuzione e di organizzazione urbana dell’Impero.

– L’espressione collettiva di pratiche culturali andine millenarie preesistenti.

– La sopravvivenza contemporanea della sua funzione e dei suoi significati. Il ricordo dell’Impero Inca rimane vivo nella memoria dei popoli andini, sebbene difficile da recuperare; i riferimenti storici agli Incas e al loro periodo sono ancora presenti nella memoria delle comunità dislocate lungo il cammino; è l’analisi di questa tradizione orale ad averci permesso di studiare le ragioni della ritualizzazione contemporanea di spazi domestici o sacri.

Siamo, quindi, giunti alla conclusione che:

– Il Qhapaq Ñan è un sistema stradale organizzato nel XV secolo grazie all’intervento degli Incas, i quali hanno operato sulla preesistente rete stradale dei popoli andini, nei territori compresi tra Colombia meridionale, Argentina centrale e Cile.

– Il Qhapaq Ñan nasce in quanto esigenza di uno Stato, per soddisfare le proprie esigenze economiche, militari e rituali.

– Il Qhapaq Ñan non è un’opera del XV secolo, ma rappresenta un sistema di mezzi di comunicazione che hanno stabilito vincoli tra i popoli andini nel corso di oltre quindici secoli di storia.

– Il Qhapaq Ñan è frutto del progetto politico dell’Impero portato avanti da tre governanti a cavallo tra il XV e il XVI secolo, un progetto di enorme estensione lungo il continente, che integrava una varietà di culture andine grazie all’aiuto di una rete stradale che, in quanto progetto tecnologico e ideologico, univa territori funzionando come asse dello spazio politico e il cui transito era rigidamente regolamentato per i membri dell’Impero.

– Poco più di 500 anni fa, il Qhapaq Ñan univa le estremità settentrionale e meridionale del continente sudamericano e già verso la fine del XIV secolo, come corollario di una notevole crescita delle attività agricole e manifatturiere, consentiva gli spostamenti delle popolazioni di tutto il territorio andino, dalle terre dei Pastos, Caranquis, Quitus e Cañaris al confine settentrionale delle Ande, fino a quelle dei Diaguitas, Picunches e Huarpes dell’estremo sud.

– Il Qhapaq Ñan era connaturato alla concezione, all’estensione e allo sviluppo del Tawantinsuyu, una formazione politica guidata dagli Incas di Cusco, che, pur partendo dal principio dell’unità politica territoriale, si basava anche sull’accettazione della diversità dei modi di vita, delle credenze e del sapere, e che ha replicato il governo inca anche in altri centri urbani sul modello di Cusco, tra cui: Quito, Tomebamba, Cajamarca, Huanuco Pampa, Jauja, Vilcashuamán, Paria, Hatumcolla, Uspallata.

– Il Qhapaq Ñan ha sviluppato la più sofisticata tecnologia stradale d’alta montagna: guadi e ponti, gallerie, strade e fossati, caditoie e canali di scolo, muri e segnaletica, oltre ai tambo per riposare e rifocillarsi.

In questo modo abbiamo tracciato la narrazione che conteneva le categorie del bene in oggetto e che sarebbe poi servita come base per lo studio comparativo, fondamentale per provare la singolarità del bene candidato, ovvero:

L’itinerario culturale Qhapaq Ñan è stato concepito come un sistema di comunicazione continentale al servizio di un progetto politico imperiale del XV secolo: il Tawantinsuyu, sotto il dominio degli Incas, sebbene non si tratti di una costruzione risalente al secolo XV. Si trattava di insiemi di percorsi intercomunicanti, di sentieri generati dai viaggi di altrettante culture andine precedenti, ma questa volta con l’intento di arrivare più lontano e di avvicinare i confini, di garantire un flusso di idee, poteri, merci e cosmologie tale da assicurare il buon funzionamento dell’Impero Inca dal livello del mare a più di 6.000 metri di altitudine, percorrendo le quattro stagioni in una singola giornata e consentendo gli interscambi entro un territorio vasto 5 milioni di Km².

La vastità e la qualità di questo progetto costruttivo trovano la propria spiegazione nella capacità coercitiva di Cusco, consapevole del fatto che non era necessario eliminare il sostrato culturale precedente o quello contemporaneo non incaici se le popolazioni collaboravano mediante la mita, ottemperando così alla fornitura di mano d’opera prevista dalle strategie politiche dello Stato. Il Sistema Stradale, che aveva una lunghezza stimata di 30.000 km, funzionava come una rete articolata di strade e infrastrutture direttamente collegate al loro funzionamento e approvvigionamento, costruite nel corso di più di 3.000 anni di culture andine precedenti a quella degli Incas. Tutto questo insieme di cammini collegava diversi centri produttivi, amministrativi e cerimoniali. La rete di cammini inca metteva in comunicazione i centri di potere con le valli, i deserti e le giungle dei luoghi più remoti dell’Impero. La rete stradale intesseva ogni tipo di relazione sul territorio. I cammini della rete stradale inca sono un’espressione privilegiata dello spirito organizzativo e di gestione della forza lavoro disponibile e si rivelarono uno strumento fondamentale per unificare l’Impero, fisicamente e in modo organico.

Grazie a un’infrastruttura così straordinaria, gli Incas di Cusco hanno conferito, in meno di un secolo, un carattere unitario al proprio Impero, dotandolo di coerenza funzionale e implementando nuclei complementari dedicati al commercio, allo scambio, alla produzione e al culto, adattando i settori produttivi in base alla topografia e al clima, in ciascuna delle differenti regioni climatiche andine. Ma l’itinerario culturale Qhapaq Ñan è stato anche una via di comunicazione che ha permesso la diffusione e la maturazione delle culture regionali e l’appropriazione di valori culturali comuni, grazie all’espansione di lingue come il quechua e l’aymara e, con esse, delle rispettive culture e cosmovisioni. Il Cammino esprime, inoltre, il rapporto armonioso di questi popoli con la complessa natura delle Ande e il loro adattamento alla stessa. Oggi, le regioni climatiche coperte dall’itinerario culturale Qhapaq Ñan definiscono un contesto eccezionale in cui le culture andine viventi continuano a essere portatrici di un messaggio universale: la capacità umana di trasformare una delle geografie più difficili del continente americano in un ambiente in cui vivere.

L’itinerario culturale Qhapaq Ñan è stato costruito con una tecnologia estremamente sofisticata ma preistorica da una civiltà come quella incaica che, per portare a termine un’impresa di tale straordinaria bellezza tecnologica e ingegneristica, non si è servita della ruota, né di animali da tiro. L’itinerario culturale Sistema Viario Andino è, per definizione, la manifestazione di un eroismo silenzioso, di tecnologie stradali ricche di sapienza, che attraversano verticalmente differenze ecologiche ed economiche, collegando culture indissolubilmente legate a una delle geografie più estreme del pianeta.

Nel caso dei cammini, l’abilità costruttiva va al di là delle necessità funzionali di una rete di comunicazione. L’enorme varietà tipologica di scale, di tecniche, di finiture e disposizioni, di delimitazioni, di gestione idraulica, di materiali, ci parla, ancora una volta, di abilità costruttive tecnicamente impeccabili. La minuzia con cui vengono mitigati i dislivelli, il tutto effettuato con le sole forze umane, senza poter contare su animali da tiro o sulla ruota e utilizzando soltanto semplici strumenti in pietra e legno o metallo, sintetizza con efficacia una grande avventura imperiale che ha raggiunto il successo nell’arco di poche generazioni. La competenza con cui le strade sono state progettate e la precisione con cui sono state costruite venivano integrate da precisi programmi di manutenzione e rifacimento permanenti.

Il Qhapaq Ñan non può essere considerato esclusivamente come una prodezza tecnologica dal punto di vista architettonico o ingegneristico, non si tratta del lavoro di un genio creativo individuale, né di una singola cultura. È senza dubbio una delle grandi imprese umane del mondo antico e oggi continua a tessere i legami tra le modalità ancestrali e contemporanee del pensare e sperimentare il mondo andino. Il tracciato del Cammino è archeologico, la sua eredità no. Le sue vestigia sono oggi ampiamente visibili e i suoi tratti meglio conservati sono praticamente tutti ancora in uso. Oggi il Qhapaq Ñan è il reperto archeologico più grande e di maggiore spessore storico del Sudamerica e la sua eredità è in grado di fornire opportunità alternative di sviluppo ai popoli della “mancha azul”, come forma di espressione dei loro diritti a un Patrimonio culturale e naturale ancestrale ma presente, immanente, che deve arrivare alle generazioni future. Né la Via della Seta, né le strade azteche, né le vie di comunicazione costiere e fluviali già iscritte nel Patrimonio Mondiale dell’UNESCO possono competere con questo valore fondamentale:

Il Qhapaq Ñan è un Sistema Viario sviluppato su un’estensione geografica di oltre 5 milioni di km2, concepito, progettato e realizzato con mezzi preistorici, in sole tre generazioni, nell’ambiente geografico più ostile del pianeta e che continua ad essere utilizzato, svolgendo le funzioni di collegamento fisico e simbolico tra le comunità andine, che oggi continuano a percorrerlo scambiandosi valori, prodotti e conoscenze attraverso percorsi fisicamente ben delineati e che ancora oggi continuano a rendere possibile una connessione a carattere continentale.

Riflessione personale

Un decennio al timone del coordinamento del Progetto per la candidatura del Qhapaq Ñan alla Lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO

Il 29 gennaio 2003 ho iniziato il mio lavoro di coordinamento su un’idea iniziale espressa da due lettere ufficiali ricevute dal Centro del Patrimonio Mondiale a Parigi.

Lo stesso giorno, i Delegati Permanenti dei sei Paesi coinvolti hanno chiesto all’UNESCO una collaborazione, che tutti immaginavamo di ampio respiro, per coordinare un processo unico nella storia della Convenzione sul Patrimonio Mondiale. Il 31 gennaio 2013 abbiamo completato il dossier per la candidatura e il fascicolo di 2.656 pagine, in castigliano e in inglese, rappresentava un buon resoconto delle 21 riunioni di coordinamento internazionale, delle centinaia di migliaia di email, delle innumerevoli chiamate via Skype, delle centinaia di telefonate, lettere ufficiali e di vari mesi, quelli finali, di comunicazioni frenetiche.

Questo progetto non si sarebbe potuto realizzare senza il coraggio, e vorrei anche dire l’audacia; né può procedere senza un impegno tanto professionale quanto personale; non può svilupparsi senza la convinzione che occorre dare il massimo quando ci si è assunti la responsabilità del significato dell’esercizio di trasmissione culturale in cui adesso siamo tutti coinvolti.

Il Qhapaq Ñan sorprende e impressiona fin dal primo giorno, ma il Qhapaq Ñan non si concede tutto in una volta, non si mostra esplicitamente; fin dall’inizio lascia intuire un’enorme complessità e profondità temporale, un’immensa architettura di costruzione culturale collettiva e di raffinatezza concettuale.

È altrettanto vero che il Qhapaq Ñan ha ridimensionato il nostro coraggio iniziale, via via che ci rendevamo conto di tutta la sua grandezza. Cusco, Quito, Salta, il Titicaca, le bromelie della Laguna de la Cocha, i bambini e il parroco di Maras, il deserto di Calama, le innumerevoli terrazze della Coctaca, i caffè nell’ayllu, il santuario di Las Lajas, Racchi, il Choro, i bonbon di coca, i colori di Tambo Colorado, i disegni di Humboldt sui Paredones del Cajas sono state alcune delle tappe del nostro rito di iniziazione e hanno prodotto l’incantesimo da cui sappiamo che non guariremo mai.

Man mano che procedevamo con la sistematizzazione dei registri dopo la riunione di Pasto, in Colombia, nel novembre del 2006, il Qhapaq Ñan ha iniziato ad apparirci come irraggiungibile: era quasi una missione impossibile riuscire a includere tutta la sua varietà e, oltretutto, riuscire ad armonizzare lo sforzo in modo che tutti i dati entrassero a comporre la stessa partitura. Il compito si stava complicando, ma il Cammino ci aveva già conquistato. Abbiamo superato gli ostacoli e siamo riusciti a distillare la diversità e a far entrare tutte le note nel pentagramma. Comprendere e assimilare la vastità dell’impresa ci ha dato più forza come gruppo. Tutta la sua problematicità ha giocato a nostro vantaggio, il mastodonte non si muoveva con agilità e pertanto siamo riusciti a vincere le difficoltà nei momenti di trasformazioni istituzionali e politiche.

Quando abbiamo provato a rispecchiarci in altre procedure di candidatura al Patrimonio Mondiale dell’Umanità, non siamo mai riusciti a trovare un punto di riferimento con cui comparare i nostri sforzi. Per rendere onore alla costruzione, al significato e alla dimensione territoriale del Tawantinsuyu non potevamo restringere l’impresa. Ci è stato chiaro fin dal principio che si trattava di un impegno continentale che non ammetteva riduzioni o tagli. E oggi possiamo dire di aver inventato un modo per far crescere la Convenzione per la protezione del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. Non esiste al mondo un altro bene che abbia preso in esame più di mille chilometri di infrastrutture, più di 100 siti archeologici e che possa contare su una memoria orale viva che ci si rivela come testimonianza inconfutabile dell’eccezionale valore universale della sua contemporaneità.

Non esiste un solo esempio al mondo in cui archeologia e antropologia siano più vicine, in cui abbiano tanto bisogno l’una dell’altra, da cui costruire un modello di cultura e di sviluppo in linea con le esigenze delle civiltà andine. Non esiste un solo bene candidato che abbia giustificato il proprio eccezionale valore universale rispetto a tutti i criteri culturali della Convenzione, e non c’è un solo progetto altrettanto complesso di costruzione collettiva del sapere.

Fin da subito abbiamo capito che era necessaria una lettura plurale e condivisa della storia e, senza trascurare un solo aspetto di quanto era già acquisito, abbiamo iniziato a mettere insieme i pezzi della costruzione. Abbiamo compilato bibliografie, cronache, memorie archeologiche, cartografia storica, fonti etnografiche ed etno-storiche… sapevamo fin dall’inizio che tutta questa materia prima era necessaria ma non sufficiente.

La procedura di candidatura ha riunito tutto ciò che era noto, ha colmato le lacune, ha corretto gli errori, ha riorientato le argomentazioni e ha lasciato a disposizione una conoscenza che sarà il seme per la produzione scientifica delle generazioni future. Questo era il nostro proposito: arrivare al riconoscimento attraverso la conoscenza e non il contrario. Questo è il punto di forza di questo progetto rispetto a qualsiasi valutazione.

In termini di integrazione regionale, questo progetto si è lasciato alle spalle le formulazioni di dichiarazioni d’intenti dei vertici politici per trasformare in realtà quello che si scrive sempre nei preamboli come augurio. Ed è stata costruita collettivamente, a partire dalla cultura, una visione e revisione del patrimonio andino in quanto bene collettivo. Sono stati creati legami di cooperazione internazionale sostenibile, e questo è il mandato principale dell’UNESCO.Questa procedura non avrebbe potuto essere sostenuta senza i Delegati permanenti dei rispettivi Paesi all’UNESCO, che sono stati gli interlocutori diretti con la Direzione Generale dell’UNESCO e con tutti gli Stati membri della Convenzione. Questa procedura non avrebbe potuto svilupparsi senza il sostegno dei direttori dei Beni Culturali dei Paesi, senza i rappresentanti presso i Ministeri degli Affari Esteri e, soprattutto, senza i responsabili del coordinamento tecnico nazionale, che hanno sempre trovato uno spazio per il Qhapaq Ñan all’interno di tutte le politiche di protezione nazionale e che hanno saputo comprendere e applicare lungo l’intera procedura tutta l’esperienza accumulata nella gestione quotidiana dei beni di ciascun Paese.

E nulla di quanto citato avrebbe potuto svilupparsi se non esistesse una mega-plurale diversità culturale e naturale, un collettivo continentale, unico al mondo. Nulla sosterrebbe la nostra proposta se le comunità locali e/o indigene non avessero svolto il ruolo di traduttrici di tutto ciò che l’archeologia e la storia non possono rivelare. Senza gli uomini e le donne che continuano a percorrerne i cammini, il bene Qhapaq Ñan non potrebbe continuare a essere garante per la trasmissione dei propri valori. Loro sono i portatori della sua grandezza, ma non i responsabili per la sua fragilità.

Tanto più studio, quanto più fatico a credere che tutto ciò che abbiamo visto e registrato possa essere stato completato come progetto politico in meno di un secolo. Il Sistema Viario Andino ci fa entrare a far parte di una prodezza che non ha data di scadenza e che ci coinvolge tutti in un impegno di tipo permanente.

Oggi il Cammino prosegue felicemente la sua strada.

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Rappresentare,
interpretare,
attivare

Il cammino principale andino

Di José de Nordenflycht
Curatore della sezione arte contemporanea della mostra
Qhapaq Ñan, Il grande cammino delle Ande

1. Percorrendo il Qhapaq Ñan

“Camminare ci permette di essere nel nostro corpo e nel mondo senza esserne sopraffatti.”
Rebeca Solnit, 20001

Il Qhapaq Ñan è un termine quechua che significa il “cammino del signore”2e il suo valore culturale è stato riconosciuto dalla comunità internazionale inserendolo nella lista dei monumenti dichiarati Patrimonio Mondiale con la dicitura “Sistema Viario Andino”. Si tratta di un percorso culturale voluto dal potere politico ed economico dell’Impero Inca, autodenominatosi in lingua quechua Tawantinsuyu: una rete stradale di oltre 30.000 km di lunghezza che collegava diversi centri di produzione, amministrativi e religiosi, edificati nel corso di un arco temporale di oltre 2.000 anni di cultura andina pre-incaica e che copre una vasta area geografica che inizia nel sud-ovest della Colombia (estremità nord del Cammino) e discorre fino ad arrivare all’area centro-occidentale dell’Argentina e del Cile (estremità sud del Cammino). Una delle più importanti caratteristiche è l’aspetto storico, si tratta infatti di un complesso sistema di controllo territoriale inserito in un contesto naturale dove le popolazioni odierne conferiscono “visibilità” ai propri avi.

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Essere stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità significa avere dei punti di forza, per esempio la gestione tradizionale, ovvero la tutela esercitata dalle comunità locali, ma significa anche dover far fronte alle minacce, per esempio quella a cui sono soggetti i cammini e i luoghi a causa della loro vulnerabilità, stato derivante dallo sviluppo e dalle condizioni ambientali. Non a caso quando il Cammino fu inserito nella lista fu raccomandato di progettare un adeguato sistema di monitoraggio periodico.3

Per monitoraggio si intende anche dare massima diffusione alle informazioni relative alle caratteristiche del Cammino, poiché contribuiscono a valorizzarlo. Queste caratteristiche vanno ben oltre la semplice testimonianza della sua funzione, ovvero facilitare lo spostamento di persone e lo scambio di merci, dal momento che si tratta di un’opera abitativa di valenza culturale ed alto significato simbolico, dove dimorano comunità che danno visibilità a un vasto territorio andino: un sistema viario che oggi attraversa ben sei Paesi sudamericani.

È una rete stradale che viene attivata dalla memoria storica degli abitanti e dalla futura comparsa dei corpi che la percorreranno, in un presente che ci invita a camminarci, dandole la possibilità di essere rappresentata, interpretata ed attivata.

La mostra”Qhapaq Ñan, Il grande cammino delle Ande” ha chiamato a sé sei artisti visivi, affidando loro il compito di proporre modi diversi di percorrere i tratti di questo itinerario culturale, permettendo al visitatore di vivere attraverso i sensi un’esperienza utile a completare l’informazione scientifica, basata sui registri visibili archeologici, antropologici e storici.

Tutti sanno che prima ancora di intraprendere un viaggio, con la mente ne tracciamo l’inizio e cerchiamo persino di prevedere quando ci torneremo, a seconda della nostalgia che avremo dei luoghi che visiteremo. Un sistema viario complesso come il Qhapaq Ñan, composto da numerose strade, si può percorrere a partire da ciò che rappresentano le forme prodotte da questi artisti provenienti da sei Paesi appartenenti ai quattro punti cardinali del Tawantinsuyu, il cui centro è Cusco, ovvero: il Chinchaysuyu (Colombia, Ecuador e Perù), Kuntisuyu (Perù), Antisuyu (Colombia, Ecuador, Perù e Stato Plurinazionale di Bolivia) e il Kollasuyu (Perù, Stato Plurinazionale di Bolivia, Argentina e Cile).

La collocazione delle loro opere costituisce un’allegoria della forma e del senso del khipu – nodo in lingua quechua – un sistema di annotazione e registrazione la cui forma variabile consiste in una serie di laccetti, di lana o di cotone, legati a una cordicina più grande percorsa da una serie di nodi, il cui significato è dato dalla tipologia, dalla posizione, dalla sequenza e dal colore degli stessi. Per una scienza occidentale che avanza ipotesi sui suoi più complessi significati, il khipu è più di un sistema di calcolo.4 Tra le informazioni trasmesse da ciascuno dei dati prodotti dalla ricerca scientifica, razionale e descrittiva qui esposti, le opere richiamano metaforicamente le annodature dei sensi.

Questi sei artisti hanno lavorato alla creazione di forme che lasciano delle tracce appena percettibili sul territorio, come la quilca, parola quechua che significa “impronta”. Quella promessa che nelle mappe si intravede appena, gli artisti la palesano con la presenza delle loro opere.

Sono tutti interpreti in egual misura di una rete i cui nodi legano tra di loro i componenti di un gruppo andino. Sono come i khipukamayuq, che in quechua significa “interprete del khipu”. Per fare questa operazione tendono una cordicella infinita percettibile solo grazie alla presenza dei nodi, che rivelano dei segni basandosi sul rapporto tra le loro opere.

Questi sei artisti evocano il kamaq (“colui che anima”): se l’azione fisica del camminare implica una trasformazione del luogo e dei suoi significati5, la sua deriva immaginaria è configurata dal visitatore, affinché il fatto stesso di aver visitato la mostra lo inviti per un attimo a sentirsi compagno di viaggio di numerosi uomini e donne delle Ande. Un camminante improbabile che si apre a noi dal ritorno ancestrale di questo universo andino. Sicuramente non tutti i visitatori di questa mostra hanno camminato o potranno camminare nelle Ande, ma non c’è dubbio che questa visita non è una semplice operazione di immagazzinamento di informazioni e di contenuti su un lontano cammino nelle Ande.

Questa strada, percorribile solo a piedi e lungo la quale in passato camminarono gli avi delle popolazioni andine, ha via via costruito una narrativa sociale nello spazio6. È proprio questo il messaggio che riecheggia quando le opere disposte in questa sala ci parlano: il nostro viaggio è iniziato nel momento in cui i nostri corpi si sono messi in movimento per dirigersi verso un futuro passato.

2. Rappresentare: la quilca

“E in questo luogo porterò notizie del grande cammino che gli Incas ordinarono di costruire lungo una metà (delle pianure) e che nonostante in molti punti sia ormai fatiscente e distrutto, rende l’idea dell’antica grandezza e del potere di coloro che ne ordinarono la costruzione.”
Pedro Cieza de León, 15537

I cronisti spagnoli del XVI secolo si resero subito conto del valore racchiuso nel tracciato del Qhapaq Ñan, così come della sua funzione. L’ansia di conquista politica e di dominio sul territorio della regione andina li hanno obbligati a rimuovere e a dimenticare, ma anche a sfruttare i luoghi “fatiscenti e distrutti”, per ricordare per sempre che le rovine non sono semplici macerie.

E se una rovina è un’impronta terminale della curva dell’obsolescenza materiale di qualsiasi opera, gli artisti di questa mostra sono gli addetti a “lasciare un’impronta”8, la quilca, appunto, in quechua. Così la vedevano anche gli artisti andini, veri e propri produttori di rovine. La loro arte nasce dalla volontà di lasciare una forma laddove i sensi chiedono una spiegazione per gli uomini e le donne delle Ande.

Gracia Cutuli (1937), artista tessile argentina, ha iniziato a lavorare in questo settore negli anni ’60, sia per quanto riguarda la tecnica che l’uso dei tessuti come supporto per la creazione di opere visive bidimensionali. Nei primi anni del suo percorso artistico ha studiato le antiche conoscenze dei popoli andini, a partire da come metodologicamente e simbolicamente si “riconoscevano” nei tessuti.

Le trame dei suoi tocapus, un modello geometrico che in quechua significa “forma emergente dalle montagne sacre”, ci ricordano che ciò che è ancestrale è anche contemporaneo, poiché questa continuità fa parte di un’universalità culturale e di un senso di circolarità temporale, dove l’esperienza del soggetto si fonde con i cicli superiori di un habitat naturale che ci permette di viverci finché ne facciamo parte integrante. Come suggerisce il filosofo argentino Rodolfo Kusch: “in quel mondo animale, con i suoi quattro punti cardinali a mo’ di zampe, l’indio non possiede nulla. Egli non è padrone del mondo, è il mondo ad essere il suo padrone.”9

Il paradigma tessile è quindi un sistema a griglia che permette di dare forma a modelli che dialogano indistintamente e simultaneamente con il passato e con la contemporaneità.10 Un’opera che si colloca in un contesto più ampio se consideriamo che gli artisti contemporanei rioplatensi, sia di Buenos Aires che di Montevideo, avevano svolto delle ricerche sulle qualità formali e identitarie della produzione visiva degli artisti andini del passato.

È nota l’integrazione di opere fatte da artisti come Alfredo Guido e Joaquín Torres García negli anni ‘30, o Alejandro Puente e César Paternosto negli anni ‘60.

Le opere di Cutuli presenti in sala parlano di un’affiliazione al paradigma del contenimento astratto e parallelamente palesano la propria identità proponendo il tessuto come un testo, proponendo una trama il cui potenziale decodificatore viene offerto allo spettatore con modalità allegoriche ma che sono anche letterarie.11 Mentre la sua “Tahuantinsuyu” è una creazione tessile composta al telaio su una trama di lana e cotone, le opere “¡Kausasiannikun! ¡Kachkaniraokun!” (Ancora siamo, Ancora ci siamo) e “Tokapus e il canto di José María de Arguedas” sono dipinte e realizzate con tecniche miste e in esse è riportata la poesia “Tupac Amaru kamaq taytanchisman.” (Al nostro padre creatore Tupac Amaru), dello scrittore peruviano José María Arguedas.12

Abbiamo detto che quilca sono delle impronte che permettono di riconoscere una strada, segni circoscritti sulla superficie del territorio, insomma narrazioni grafiche. Ed è proprio questa vocazione narrativa che troviamo in Joaquín Sánchez (1977), un artista nato in Paraguay ma residente nello Stato Plurinazionale di Bolivia, che utilizza supporti, formati e strumenti di ogni tipo, con i quali tratta in particolare il rapporto con le comunità indigene che vivono in contesti rurali come le terre calde della foresta o gli universi andini delle montagne.

Quest’interesse particolare e il suo vagare nei cammini delle Ande si può apprezzare nell’opera “ILLA”, termine quechua che indica un luogo raggiunto dalla luce di un fulmine, ciò che trasforma gli oggetti in talismani. Uno di questi oggetti è il “Torito de Pukará”, figura zoomorfica che nei villaggi andini viene posizionata sul tetto delle case per attrarre benessere e fertilità a beneficio delle persone che vi dimorano.

In questa iconografia così caratteristica, l’opera di Sánchez decontestualizza il “Torito” originale cambiandone anche il materiale con cui è fatto e le dimensioni originali. Il materiale, in quanto propone una figura voluminosa gonfiabile in stoffa dorata con frasi ricamate in seta dorata; poi modifica le dimensioni originali di questi piccoli oggetti di ceramica riproducendo l’opera in scala, ma aumentandola fino a portarla a dimensioni gigantesche; infine ne modifica la collocazione. La prima versione fu infatti esposta sul tetto del Palazzo Concistoriale di La Paz (Municipio), un edificio storicista di stile eclettico, progettato dall’architetto Emilio Villanueva, artista formatosi nelle accademie di architettura del Cile. Il Palazzo dista molto dall’Hotel de Ville di Parigi, il cui amato “Torito” è stato preso a modello per la copia destinata al municipio boliviano. Decolonizzare quei riferimenti attraverso la citazione del mondo andino popolare e ancestrale è un’operazione in cui si conferisce visibilità e che in un certo senso restituisce il potere dell’idolo tutelare in un luogo sacro, come la huaca, che in quechua significa “luogo inteso come oggetto sacro”; molle, splendente e gonfia come l’orgoglio di chi sconfigge la menzogna di un futuro che non rispetta il proprio passato.

Al di là delle considerazioni sulle forme, la sua opera rivela che il contatto con le soggettività collettive si crea lungo una trama sviluppata a partire dalle narrazioni, e tramare la storia resiliente di comunità agrafe fa sì che l’artista diventi narratore, così come lo descrive Adriana Almada13. Sánchez è un narratore che sa illustrare la cultura orale, quella che fa comunità, perché mette l’ascoltatore al posto del narratore e del suo messaggio ineffabile, che scandisce i tempi del racconto delle azioni che non hanno né passato né futuro, ma solo un presente eterno.

È un artista che non coopta, con atteggiamento paternalista, le manifestazioni popolari del mondo andino, piuttosto ne conforta le osservazioni partecipative per poi proporre forme, perché, come afferma Ticio Escobar: “Nessuno può sognare storie altrui con tanta convinzione da poterle cambiare”14. Ma – potremmo aggiungere noi –  si possono sognare per rappresentarle, vedendo come in questa mostra viene proposto un “Torito”.

  1. Interpretare: i khipukamayuq

“Forse non c’è altro luogo al mondo dove da un solo punto di osservazione è possibile ammirare un panorama così variegato e grandioso. Tutto l’altipiano del Perù e della Bolivia, nella parte più larga, con il suo sistema idrico, i suoi fiumi, i suoi laghi, le sue pianure e le sue montagne, e il tutto incorniciato dai monti della Cordigliera delle Ande, si presenta agli occhi del visitatore avventuriero come una mappa che sale fino all’apacheta del Tiahuanaco.”
George Squier, 186515

Dopo che i territori soggetti al dominio dell’Impero Spagnolo ebbero ottenuto l’autonomia politica e si aprirono al mondo, furono soggetti a un’altra colonizzazione, quella commerciale, ma stavolta ad opera di imprenditori ed esploratori europei, non più iberici ma statunitensi, coloro che nel corso del XIX secolo si sarebbero spinti oltre le frontiere interne delle foreste, dei deserti e delle montagne per calcolare, controllare ed estrarne le risorse naturali.

In quel momento l’occidente riscoprì il mondo andino, un processo che se da un lato richiedeva uno sforzo, dall’altro era causa di ansia. Le aspettative erano alte: basta ricordare che nel 1911 il Machu Picchu entrò nell’immaginario del mondo nordatlantico grazie ai risultati delle esplorazioni di Hiran Bingham, il quale affermò che all’inizio del secolo scorso furono messe in atto, per poi essere istituzionalizzate e legittimate, pratiche di valorizzazione del patrimonio che oggi saremmo più propensi a far rientrare nella categoria del saccheggio e dell’appropriazione indebita.16

La cultura andina fu obbligata ad accettare il modello dei neonati Stati Nazionali sudamericani, pertanto, armata delle conoscenze ancestrali, in modo sgusciante oppose resistenza alla colonizzazione: un compito improrogabile, e oggi sono gli artisti che, interpreti di quel sapere, mettono in crisi la dittatura del significante e il suo formalismo egemonico.

Distinzioni come quelle tra arti minori, arti popolari, artigianato e folclore sono solo declinazioni di tassonomie che non hanno nessun rapporto con la cosmo-visione andina, e si fanno eco solo del decimonono darwinismo social imperante. È curioso osservare che, pur essendo il linguaggio alfabetico uno degli attributi necessari perché una civiltà sia riconosciuta tale, tra le popolazioni del territorio andino sudamericano tale linguaggio sia assente.

È chiaro quindi che per configurare rappresentazioni simboliche, questa cultura agrafa si serve di altri elementi. Dove non c’è scrittura ma c’è tessuto, gli artisti sapranno valorizzare la potenza di intelligenze che comunicano con mezzi alternativi e forme refrattarie alle logiche straniere.

Gli artisti chiamati ad esporre in questa mostra sono come una sorta di khipukamayuq, termine quechua che significa “interprete specializzato nel khipu”. Quando il khipu è un nodo di tutti, l’artista, proprio come un khipukamayuq, scioglie i nodi ma tende anche la corda lungo la quale questi sono annodati.

È nell’ambito di questa preoccupazione per il linguaggio, che non si limita alle sue espressioni egemoniche, dove si inserisce il pensiero dell’artista colombiano Gabriel Vanegas (1982) e lo fa con un atteggiamento di diffidenza e irriverenza nei confronti del discorso che fa capo al modello delle conoscenze occidentali, attuando i principi dell’anarcheologia, una sorta di anarchia epistemica che lo convince a mettere da parte le nozioni di progresso e i modelli di storia lineari e a decostruire le gerarchie dei sistemi dominanti nell’arte. Il tutto è arricchito dal dialogo sostenuto dall’artista con il pensatore tedesco Siegfried Zielinski,17 dal quale prende in prestito strumenti appartenenti alla sfera accademica, che gli permettono di scalzare l’egemonia tecnocratica occidentale e sostenere la sua ricerca decolonizzatrice.

Tutto ciò lo porta alla ricerca del futuro nel passato: luogo improbabile nel quale incontra subito la cosmo-visione andina, la quale rimanda a un sistema superiore che manda in punto di fuga persino l’antropocene e il suo desiderio di sottomettere la natura e un certo tipo di paesaggio dominato dall’impero dello sguardo.

Nella sua opera, l’archivio non è una selezione riduttiva della realtà, ma l’ordine della realtà che si condivide attraverso l’esperienza. Il suo modo di intendere il khipu –  una rete di annotazioni e possibili significati – lo trasforma in tempo reale in una registrazione della coscienza del corpo, attivata da una rete che collega gli uni agli altri e la cui coscienza risiede oltre il riduzionismo dello specismo occidentale.

Vogliamo ricordare che la rete stradale del Qhapaq Ñan era talmente importante che alcuni autori concordano nell’affermare che per gli Incas il controllo decentralizzato era una strategia ai fini del dominio operata attraverso il tributo al lavoro. Non furono quindi costruttori di città nel senso occidentale di concentrazione di opportunità, scambi e difesa, poiché l’intero sistema era integrato18. Si dimostra quindi che è possibile costruire il mondo ed essere considerati una civiltà anche in assenza di città complesse, fatta eccezione per Cusco.19

Per questo motivo decentralizzare le periferie e le zone rurali in un territorio naturale significava sempre fare cultura. I popoli andini fanno del rituale un’arte integrata e una forma di quest’arte consiste in particolari cumuli di pietre dalle forme astratte20,  le apachetas, termine quechua che significa “offerte che indicano la strada”. Queste forme artistiche, prescindendo dall’antropomorfismo, riescono a trasformare un paesaggio naturale unisono in paesaggio culturale.

Vedere le apachetas e seguirle non è facile perché si mimetizzano nel paesaggio, sfuggono allo sguardo di chi non sa riconoscerle. La loro presenza si rivela solo allo sguardo di colui che ha la capacità di riconoscerle come parte di un sistema superiore.

Nel caso dell’artista ecuadoriana Estefanía Peñafiel Loaiza (1978), la sua opera rappresenta i paradossi dell’invisibilità attraverso i segni che rivelano la subalternità al potere: i documenti cancellati, le scomparse forzate, le cecità impreviste, le assenze invocate. Tutte situazioni alle quali l’artista propone strategie visive che, come “frammenti liminari”21, si spargono delicatamente tra i loro vuoti apparenti.

Come “l’acqua che lentamente e impercettibilmente si insinua tra le pietre ataviche”, concetto che la parola quechua ushnu riassume con estrema precisione, se si considera che si tratta solo di un sistema di drenaggio in cui pozzi e canali guidano il percorso dell’acqua.

L’opera di Peñafiel intitolata “una certa idea del paradiso 1. quest’oro mangiamo (secondo Guamán Poma de Ayala)” (2006-2021) riprende l’iconografia dell’incontro tra le popolazioni andine e i conquistadores spagnoli, con una citazione che appare nelle famose illustrazioni del periodo coloniale ad opera del cronista Felipe Guamán Poma de Ayala.22

Si tratta della riproduzione su una parete, in scala gigantesca, di un disegno preso da un libro illustrato. Questa operazione visiva, inoltre, scalza il significante materiale del tratto, dal momento che il disegno è realizzato con della cioccolata, il cui processo di trasformazione ha avuto luogo in Europa, ma utilizzando il cacao originario dell’Ecuador.

Il chicco di cacao è il seme della macchia che si oppone alla superficie, e in quella difficile permeabilità indica la porosità refrattaria di un muro, dove l’immagine che affiora è il frammento di una cartografia segreta di corpi posti uno di fronte all’altro in un gesto che esprime offerta e ospitalità, restituendo l’immagine binaria di subalternità politica, dove il meticciato opera come la realtà di un nuovo mondo che si riconosce nello scambio di prodotti preesistenti.

La storia ci dice che quello degli Incas è stato l’ultimo sistema organizzativo umano delle Ande prima che nel secolo XVI iniziasse il processo di colonizzazione europea. Con questo vogliamo dire che in precedenza ce ne furono altri, lungo orizzonti il cui punto di inflessione è rappresentato dall’occupazione di un vasto territorio, dal momento che la proiezione della cultura andina percorre l’epoca coloniale e repubblicana e giunge fino ai nostri giorni per essere interpretata e rivelare il potere di continuità e attualità di cui è dotata.

Se è vero che per i numerosi devoti della Leggenda Nera tutto fu perduto con la Conquista, è anche vero che, a detta di Teresa Gisbert, dall’Impero Romano in poi “Il mondo non ha più conosciuto una società plurale come quella che si era vista nelle Indie.

Si è trattato di una delle sperimentazioni più rischiose della storia, sperimentazione che riuscì ad attaccare un continente intero al vecchio carro della cultura europea, compiendo così un passo decisivo verso l’universalità della cultura”23, il cui possibile centro è il collegamento con le periferie, dove le copie sono gli originali, perché nella natura tutti sono considerati uguali.

4. Attivare: il kamaq

“Filo di offerta

 che l’inka infiamma

 il tessuto torna

 all’immensità”

Cecilia Vicuña, 199024

Gli artisti latinoamericani provenienti dall’area andina sanno bene che rappresentare e interpretare non basta: devono mobilitare e attivare il senso collettivo dell’opera artistica a partire da ciò che implica il kamaq, parola quechua che significa “colui che dota di vita il mondo”25.

Questo potere trasmette l’empatia vitale che soggiace al bisogno di capire l’arte come rapporto che dà senso agli oggetti tra la potenziale valorizzazione dei soggetti: non è un’invocazione, né religiosa né magica. Forse un po’ misteriosa, come lo è l’energia del volontarismo quando si crea un’opera ad hoc per un luogo, punto dove si instaura quel rapporto aperto che dà corso al desiderio.

Mentre per l’europeo del XVI secolo le alte montagne delle Ande erano l’inferno in terra, un territorio ostile che per soddisfare la cupidigia deve essere attraversato con successo, per le antiche popolazioni erano le achachilas, ovvero i nonni. Lì non c’è nessuna possibilità per l’attività di estrazione, poiché deturpare i propri avi non ha senso, significherebbe uccidere il desiderio.

Quale desiderio ci può essere dietro una strada, una montagna o un fiume? Se chi desidera siamo noi, con la nostra fisicità, come possiamo trasmettere ciò che proviamo a qualcosa che non è dotato di coscienza? Per dare una risposta immediata a queste domande bisogna avere molta fede ed essere ottimisti, ad essere sinceri, qualificare un cammino a partire da attributi e valori che qualificano un monumento potrebbe essere un’operazione molto complessa. A questo punto antropologi ed etnografi avanzeranno ipotesi animiste, il dato empirico è che mentre le azioni e le pratiche abbinate a dei monumenti sono collegate a rituali statici, i cammini acquisiscono vita solo attraverso il movimento.

Un movimento che nel caso del Qhapaq Ñan non nasce solo attraverso il dominio militare, ma anche attraverso il controllo da parte dei rappresentanti locali che attiva una rete di strade e ponti che collega e favorisce il commercio e lo scambio. Quindi con l’appropriazione o la cooptazione, oppure con la rappresentazione o l’interpretazione, il kamaq del cammino ci dimostra che dobbiamo trasformare il punto di partenza in punto di arrivo.

Mariano León (1976) è un artista peruviano che ha rivisitato elementi della cultura andina che vanno oltre il topico illustrativo e analogico, per conferire loro uno sguardo che attiva gli oggetti attraverso l’interazione performativa tra soggetti collettivi, i quali danno espressione al suddetto desiderio lungo un percorso che attraversa paesaggi culturali che nascono nel deserto, nell’altipiano e nelle valli.

I paesaggi culturali e i relativi riferimenti archeologici sono entrati a far parte della produzione artistica contemporanea del Perù sin dall’inizio del XX secolo. Ricordiamo per esempio la prima opera rappresentativa del khipu: quella di Jorge Eduardo Eielson, che nel 1964 la espose alla XXXII Biennale di Venezia26.

E se teniamo conto che di tutte le città costruite in un deserto, Lima è seconda solo a Il Cairo, potremmo aggiungere un lungo elenco di artisti che oggi operano in un contesto metropolitano singolare.

L’opera di León attiva l’enormità dell’intihuatana (luogo dove si lega il sole), e usando enormi khipus inserisce contemporaneamente la danza, in un rituale che ripete tutto ciò che di creativo può esserci nella certezza del suo allontanamento, del suo movimento e della sua fuga. Cambiando un oggetto manovrabile per proporlo in scala diversa dall’originale – il khipu ancestrale –  e trasformandolo in un oggetto che interroga e avvolge il corpo, l’osservatore diventa complice di un calcolo che cessa di essere utilitarista e si apre ad altre dimensioni sensibili della misura del corpo in rapporto con il luogo.

Ricordiamo a questo punto che Ticio Escobar sostiene che “Il fulcro dell’arte indigena – la cerimonia, la danza e la rappresentazione – coincide con il discorso mitico nel punto oscuro e fecondo intorno al quale si elabora la memoria e si crea la trama delle immagini del complesso sociale.”27Alla sua opera, che rimanda al lignaggio degli Incas, attribuisce un’immagine genealogica che rompe lo schema tradizionale arborescente occidentale per inserire un khipu di fibra vegetale, come un’offerta della propria ancestralità.

Sin dagli anni ’60 l’artista cilena Cecilia Vicuña (1948) si dedica a un’arte da lei definita “poetica del precario”28, ovvero “problematizza” lo stato di obsolescenza permanente degli oggetti e il loro ciclo di vita ancestrale e storico.

La sua opera è immaginata sempre da un corpo che la precede e il corpo è il luogo definito oltre il territorio e al di qua del soggetto. Una delle sue prime opere fu quindi immaginata e intitolata “Un Quipu che Non Ricorda Nulla” (1965)29, la sua visione da artista meticcia dematerializza prima le forme e poi concentra il loro significante in un filo di lana che non è stato soggetto al controllo formale del tessuto.30

Sono passati più di cinquant’anni da quando quel progetto si è insinuato nel destino dell’artista e che in anni recenti le ha permesso di creare opere gigantesche esposte nel documenta Halle di Kassel e nel National Museum of Contemporary Art di Atene, richiamate dalla documenta 14 (2017), intitolate “Quipu womb” (il ventre del Quipu) e attivate da una performance alcuni giorni prima dell’inaugurazione31. Più di recente invece sono state esposte nella grande mostra antologica allestita presso il Museo Witte de With di Rotterdam, ed attualmente si possono ammirare nel Museo Universitario de Arte Contemporáneo di Città del Messico32, ammirare cioè giganteschi nodi annodati in enormi velli di lana non filata.

A detta dell’artista queste “poesie spaziali” sono azioni che vanno oltre il formalismo della performance, mettendo in crisi il potere attraverso una mobilitazione attivista. È un non-sapere ancestrale che interroga il non-potere tecnocratico, dove l’autorità di turno è sempre un’ombra del potere che è altrove.

Se c’è qualcosa che ci guida in questo cammino proposto da opere artistiche in mezzo a contenuti disciplinari e istituzionalizzati, è la certezza che non potremo percorrerlo come facevano gli antichi abitanti delle Ande, perché gli artisti sono lungi dal proporre come tema centrale il Patrimonio dell’Umanità attraverso un’immagine vuota.

Ma lo potremo valorizzare come patrimonio che rivela il suo senso più profondo, un patrimonio che è riconosciuto creativo e non riproduttivo, perché è un fenomeno relazionale. Un patrimonio che proviene da un dissenso e non da un consenso, perché il conflitto è il primo motore affettivo della memoria.

Un patrimonio intergenerazionale incerto, perché è costruito a partire da immagini instabili di un futuro a venire.

Grazie alla presenza di artisti contemporanei, ciò che sperimentiamo in questa mostra ci dovrebbe spingere a porci domande del tipo “Cosa fare con il Qhapaq Ñan?”, la cui risposta non è solo tecnica e politica, come se si trattasse solo di gestire l’inevitabile obsolescenza di un momento storico riconoscibile nelle sue componenti materiali.

Gli artisti ne danno conto presentandolo come un fenomeno complesso, di integrazione naturale e culturale, dove uomini e donne che lo abitano ne fanno parte, perché furono di quei luoghi e perché vogliamo che lo siano ancora.

Una responsabilità condivisa che potrebbe essere il punto di partenza, perché le nostre future generazioni possano cominciare ad immaginare come percorrere insieme il Qhapaq Ñan.

Note

1 Solnit, R. Wanderlust. Una historia del caminar, Santiago del Cile: Hueders, 2015 (2000): 19.

2 Per il significato di tutte le parole in quechua abbiamo consultato Hornberger, E. e Hornberger, N. Diccionario trilingüe quechua de Cusco: qhiswa, english, castellano, Cusco: Ariway Kamay Killa, 2008.

3 Nella nostra funzione di Segretario Esecutivo del Consiglio dei Monumenti Nazionali, abbiamo avuto il privilegio di condurre per conto del Cile l’ultima fase necessaria per l’inserimento del monumento nella Lista dei Patrimoni dell’Umanità, in occasione della 38ª Riunione del Comitato per il Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, svoltasi a Doha dal 15 al 25 giugno 2014. I criteri per l’iscrizione sono stati i seguenti: (ii) Mostrare un importante interscambio di valori umani in un lungo arco temporale o all’interno di un’area culturale del mondo, sugli sviluppi dell’architettura, nella tecnologia, nelle arti monumentali, nella pianificazione urbana e nel disegno del paesaggio; (iii) Essere testimonianza unica o eccezionale di una tradizione culturale o di una civiltà vivente o scomparsa; (iv) Costituire un esempio straordinario di una tipologia edilizia, di un insieme architettonico o tecnologico o di un paesaggio che illustri uno o più importanti fasi nella storia umana e (v) Essere direttamente o materialmente associati con avvenimenti o tradizioni viventi, idee o credenze, opere artistiche o letterarie dotate di un significato universale eccezionale.

4  Urton, G. “El Estado de las cuerdas: administración de los quipus en el Imperio incaico”, in: Shimada, I. (a cura di) El Imperio Inka, Lima: Pontificia Universidad Católica del Perú, 2018: 255-278.

5 Careri, F. Walkscapes. El andar como práctica estética, Barcellona: Gustavo Gili, 2002: 51.

6 González, C. “Arqueología Vial del Qhapaq Ñan en Sudamérica: Análisis teórico, conceptos y definiciones”, in: Boletín del Museo Chileno de Arte Precolombino, vol. 22, n. 1, 2017: 15-34.

7  Cieza de León, P. La Crónica del Perú, Lima: Peisa, 1988 (1553): 159.

8  Cummins, T. “Arte incaico”, in: Shimada, I. (a cura di) El Imperio Inka, Lima: Pontificia Universidad Católica del Perú, 2018: 282.

9  Kusch, R. Indios, porteños y dioses, Buenos Aires: Biblos, 1994: 30.

10 Paternosto, C. North and South Connected: An Abstraction of the Americas, New York: Cecilia de Torres Ltd., 1999.

11 Cutuli, G. “La forma derivada del Tiempo”, Temas de la Academia, Buenos Aires, n. 10, 2012.

12 Yaranga, A. El tesoro de la poesía quechua. Hawarikuy Simipa Illán, Madrid: Ediciones de la Torre, 1994.

13 Almada, A. Joaquín Sánchez, el narrador, Asunción: Tekohá, 2017.

14 Escobar, T. El mito del arte y el mito del pueblo, Buenos Aires: Ariel, 2014:115.

15 Squier, E. G. Un viaje por tierras incaicas. Crónica de una expedición arqueológica (1863-1865), La Paz: Editorial Los Amigos

del Libro, 1974:145.

16 Binham, H. La Ciudad Perdida de los Inkas, Buenos Aires: Quipu Editores, 2011.

17 Zielinski, S. Arqueología de los medios, Bogotà: Universidad de Los Andes, 2011.

18 Gasparini, G. e Margolies, T. Arquitectura Inka, Caracas: Universidad Central de Venezuela, 1977: 72.

19 Imbelloni, J. Civiltà Andine. Creazioni plastiche e stili degli antichi popoli delle Ande, Firenze: Sansoni, 1960.

20 Paternosto, C. Piedra Abstracta, Buenos Aires: Fondo de Cultura Económica, 1989.

21 Lenot, M. (a cura di) Estefanía Peñafiel Loaiza: fragments liminaires, Dijon: Les Presses du réel, 2015.

22 Guamán Poma de Ayala, F. Nueva crónica y buen gobierno, México: Siglo XXI, 1992 (1614).

23 Gisbert, T. El Paraíso de los pájaros parlantes. La imagen del otro en la cultura andina, La Paz: Plural, 1999: XX.

24 Vicuña, C. La Wik’uña, Santiago del Cile: Francisco Zegers Editor, 1990: 41.

25 Cummins, T. op. Cit.: 306.

26 Munive, M. “El paisaje desértico y las huacas. Apuntes para una historia de la instalación en el Perú.”, Illapa, n. 8, 2011: 85.

27 Escobar, T. El mito del arte y el mito del pueblo, Buenos Aires: Ariel, 2014: 118.

28 Vicuña, C. QUIPOem, Hanover NH: University Press of New England, 1997.

29 Bryan-Wilson, J. Fray: Art and Textile Politics, Chicago: University of Chicago Press, 2017.

30 Gardner, M. “Navegando el espacio háptico cuerda por cuerda: la abstracción y la lógica del khipu en la obra visual de Cecilia Vicuña”, in: Gardner, M. (a cura di) Vicuñiana: el arte y la poesía de Cecilia Vicuña, un diálogo sur/norte, Santiago del Cile: Editorial Cuarto Propio, 2015: 198.

31 Vicuña, C. Read Thread. The Story of the Red Thread, Berlino: Sternberg Press, 2017.

32 López, M. (a cura di) Cecilia Vicuña. Seehearing the Enlightened Failure, Rotterdam: Witte de With Center for Contemporary Art , 2019.

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